Per esorcizzare le angosce e le paure del vivere quotidiano, in due specifiche occasioni durante il periodo carnavalesco (a dumìnica i carnaluvari, la domenica precedente il carnevale, e u jornu i carnaluvari, il martedì grasso) le temibili e misteriose maschere dei pícurari si riunivano a gruppi di 8-10 elementi e scorrazzavano per le vie di Antillo destando, con le loro imprevedibili e irriverenti scorribande gestuali e verbali, ora ilarità ed esplosioni di risate liberatorie, ora sconcerto e stupore. Ad accentuare l’inquietudine suscitata dalle figure animalesche dei mascherati contribuivano i suoni frastornanti, emessi ad ogni loro movimento dai campanacci, che ingeneravano fra i compaesani emozioni di paura e sgomento.
Oltre a portare u facciali, una maschera di tela bianca con due buchi per gli occhi e a mèusa, il copricapo tradizionale, i pícurari indossavano suprâ cammicia i tila jànca, sopra la camicia di tela bianca, u rrubbuni i trappu, il giubbotto di orbace. Sopra i calzoni si mintiànu i càusi i peddi, si mettevano le brache di pelle caprina non tosata e ai piedi calzavano scarp’i pilu, ciocie di cuoio grezzo, tenute ferme da stradderi, fettuccie di cuoio incrociate lungo la gamba. Dalla cintura rinforzata pendevano tutt’intorno i campani, i campanacci, una dozzina o più, di varia foggia e grandezza (a bbujanti, a suttabujatura, a minzana, a trizzalora, a scugghja) che avevano la funzione rituale di preannunciare il temuto arrivo dei mascherati e le loro azioni trasgressive. Completavano il travestimento na tuvagghia i facci rracamata e ntrizzata, un asciugamano ricamato con le frange annodate che dalla spalla sinistra ricadeva sul fianco destro e na bbèrtula, una bisaccia, che conteneva del formaggio vecchio da una parte e na petra fucala, una pietra focaia, dall’altra. I pícurari portavano poi u bbastuni, un lungo bastone, splendidamente intarsiato e decorato, ricavato da un nodoso ramo di perastro.
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